“Con leggerezza. Impara a fare ogni cosa con leggerezza.
Usa la leggerezza nel sentire, anche quando il sentire è profondo.
Con leggerezza lascia che le cose accadano, e con leggerezza affrontale”
Aldous Huxley
F A N G O
Tothi Folisi, 2023
Rimane una compagnia di ferite da rimarginare, risposte a quesiti mai fatti, isole castano scuro, bruno, ocra, angoli senza più struttura, forma. Eccoci trasportati nel mondo antico, primordiale, ma è solo il passaggio inumidito che dura quanto il soffio del tarassaco. Dalla bocca verso il cosmo e tutto attorno brago da non vederne il finale.
La bici da qui non passa, idealmente, non ci passa, si resta impantanati come se fossimo continenti del mesozoico, pangea. Siamo il cretto e non abbiamo tendini, ne moltipliche da cambiare. E così bisognerebbe starsene, ogni tanto, mossi solo dalle cose urgenti, senza esitare, senza brivido. Nel peso mutevole dell’aria che ci accompagna, mentre gettiamo acqua su acqua accanto ai fiumi rimasti in secca, mutiamo poco a poco in creature atmosferiche fra pulviscolo e polpa, qualcosa che assomiglia al ciclismo mitico degli albori. I ciclisti delle prime corse partivano con il fango da casa, era parte delle loro biografie. Ecco Gerbi il Diavolo Rosso, Ganna l’Uomo Orologio, Pavesi l’avvocato, Galetti lo scoiattolo dei navigli, tutti figli di contadini, muratori, fornai, celati davvWeerasethakul. Siamo uomini, donne, cavalli, alberi e possiamo mutare.
Il fango ha una coscienza di consolidamento, si attacca alle cose e le modifica, le scuote, così l’albero parla, l’uomo si trasforma in animale, le costellazioni vocalizzano. Il fango può parlarci, accettarci o rifiutarci. Dovremmo avere già acquisito la capacità di adattarci al mondo, ai suoi desideri di disgrazia, ad una memoria di terracotta, a quello che il fulmine ha da dirci, alla belva che lascia il letargo, al primo getto della radice. Pregare per le cose magre nelle vie seppellite dal fango, per le corone dove non scorre la catena, per i sellini di pelle con le buste di plastica sopra, per i portapacchi con dentro i secchi e i marchi di vernici ingiallite, per i pedali che cigolano, per la carezza che esita, per i baci, quelli leggerissimi, che sanno di ibisco.
Le fondamenta della realtà sono fragili e possono capovolgersi. Indistruttibili scenografie e la nostra abitudine diventano sistemi multiformi che franano, particelle vibranti, rispondono solo alla parola vulnerabilità, alla provvisorietà di tutto. Nel fango quello che sembra piatto in realtà non lo è per niente, ribolle di energia e da qui colonie di formiche e termiti e la vita tutta, forme nuove senza sfumature ambigue.
Rimane, quindi, un solo punto fermo che accomuna tutto. La bici da qui non passa, fisicamente, non ci passa, si resta impantanati, e non ci resta che faticare e faticare ancora perché in realtà il seme di una comunità si genera nell’utopia, cambia i destini delle costellazioni e i nostri, è un lubrificante inesauribile. Arriverà ancora una buona stagione, a riscaldare ogni parete che finisce per essere al sole, tornerà anche qui l’aroma dei fiori, usciranno di nuovo dai garage le bici di fango indurito al profumo di roccia. Tornerà un vento delicato a ripulire tutto. Torneranno le passeggiate in strade non sfiorate dalla brutalità castana, torneremo a pedalare in silenzio, perché una bici che funziona non fa rumore, a controllare chilometri fatti senza prenderci cura dei paesaggi che, a pensarci bene, sono la nostra casa migliore. Sono i profili che somigliano di più di quanto possiamo immaginare a noi stessi. Non passerà tanto, solo qualche stagione, toccati dalla luce obliqua dei pendii, dove i sassi, i ciottoli, non chiedono nulla.